Didascalie museali. Scelte che fanno la differenza.
Se ci fosse stata una didascalia scritta bene, messa nel posto giusto, forse ci saremmo persi una delle scene più memorabili di Alberto Sordi, quella celeberrima alla biennale di Venezia. Ma alla fine c’è poco da ridere: senza mediazione, i nostri musei a cosa servono?
NOI NON SIAMO ALBERTO SORDI
La scena è sempre la stessa. Alberto Sordi e la moglie (Remo e Augusta Proietti) sono alla Biennale di Venezia. La meta non l’hanno scelta loro: sono le vacanze intelligenti organizzate dai figli che hanno studiato. Smarrita, curiosa, la coppia si aggira per i padiglioni interagendo con l’intuito di una vita quotidiana che con l’arte ha poca esperienza. Quell’arte contemporanea che sfugge alle regole e impone nuovi sistemi di logica e pensiero, non sempre guidati dal senso comune. È un film, ovvio; loro sono due attori e noi ci godiamo la scena da dietro uno schermo. Ridiamo. Ridiamo un riso amaro, ma ridiamo, anche a distanza di oltre trent’anni. A tratti perplessi, disillusi, persino supponenti. Ridiamo perché noi, che già ci occupiamo di cultura, non siamo così. Non lo saremmo nel film e non lo siamo nella vita. Noi visitiamo i musei, le biennali, le mostre e non serve che nessuno ci spieghi nulla; le audioguide, ad esempio, ci danno i brividi solo a pensarci. Una premessa, questa, che restituisce il senso di una riflessione che riparte, al museo, anche dalle didascalie.
UN CORSO SULLE DIDASCALIE
A Milano, una libreria, in collaborazione con uno spazio di co-working, la sede di un’associazione e uno spazio dedicato all’arte contemporanea, organizzano un corso dedicato a questo strumento considerato tanto ovvio quanto sottovalutato: le didascalie museali.
Con questo termine ci si riferisce solitamente ai supporti alla visita basati sul testo e che possono includere il titolo di una mostra, i pannelli introduttivi, quelli esplicativi e le didascalie nel loro senso più stretto. Viviamo in una società che, per il proprio impianto storico, fa delle fonti scritte il principale riferimento: un tratto dunque che ha ragioni culturali imprescindibili ma che al museo possono essere ribaltate negli scopi, nei metodi e nei modelli, al fine di amplificare gli impatti. Didascalie: ad alcuni sembrano solo un tema stravagante. I visitor studies hanno cercato più volte di quantificare quanto tempo i visitatori passino a leggerle in cerca di informazioni o conferme, ma, più che questo dato, l’interesse qui va forse al contributo offerto alla qualità dell’esperienza museale tout court e ai presupposti teorici che l’uso di questo elemento consente di dedurre.
Accommodations, Padiglione Arabia Saudita 17ima Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, Venezia. Foto: Venice Documentation Project
IL MUSEO PATERNALISTA
Di musei si parla sempre moltissimo. A voler cavalcare gli stereotipi, restano i luoghi per eccellenza della cultura, seppur vittime di incuria e del disinteresse generale. Questo dando per assodato un approccio prescolare che considera la comunicazione un processo lineare e univoco. La motivazione, in questo senso, resta solo un tema vagamente accennato. L’unico punto di attenzione su cui spesso si fa leva è il discorso, pure centrale, per cui la difficoltà reale è spingere il visitatore non abituato a varcare la soglia di ingresso. Come se superata quella porta fossero presenti sempre strumenti differenziati, multilivello e interdisciplinari, capaci di tenere alta l’attenzione dei nostri pubblici e invogliarli a tornare. Come se, nel paternalismo di questo sistema, le chiavi per l’interpretazione dovessero seguire solo strade già tracciate dal museo in un dialogo difficilmente capace di porsi in ascolto.
La verità è che noi dei musei ci fidiamo allo stesso modo in cui, alle elementari, ci fidavamo degli adulti. Ci fidiamo degli oggetti che scelgono. Ci fidiamo delle cose che dicono, dei loro aggettivi, anche quando non ce ne spiegano le ragioni. Ci fidiamo persino di quei silenzi che ne inficiano il presunto rigore, a supporto così di una cultura che sceglie di far leva sulle strade scivolose dell’approssimazione o dell’emozione, quantomeno con riferimento a pubblici non esperti.
Perché il racconto o la descrizione di argomenti spessi – in un cartaceo di 40 pagine, magari – difficilmente diventerà oggetto di interesse per chi cercava solo uno spunto, magari anche critico ma comprensibile rispetto alla propria esperienza umana, per non sentirsi totalmente inadeguato.
CURATELA O DIDATTICA?
Evidentemente, questa riflessione interroga discipline diverse, approdando alla mai conclusa diatriba gerarchica fra curatela ed educazione. Parlare di didascalie obbliga con onesta evidenza a domandarsi a chi spetti la responsabilità delle pratiche che, al museo e in ambito espositivo, raccontano il contesto, un artista, una collezione o una stessa mostra stessa.
Di chi abbiamo bisogno, in sostanza? Di un curatore, dello storico dell’arte, dell’educatore, di un mediatore, di un designer della comunicazione? Di tutte queste figure insieme? A chi, di loro, spetta declinare la voce del museo? E soprattutto, il museo, la mostra, che voce hanno? Sanno modulare i propri toni come forse pretendiamo di saperlo fare tutti nella vita reale? E infine, come valutiamo i risultati di questo presunto dialogo? Li valutiamo mai?
Parlare di didascalie, del resto, impone anche la riflessione sulla trasparenza quale sistema di metodo capace di esplicitare le proprie scelte; un sistema che si traduce, ad un livello più alto, nella contraddizione fra chi ambisce ad allargare i propri pubblici per poi rifugiarsi, in controtendenza, nell’uso di un linguaggio il più delle volte autoreferenziale.
L’uso di lessico semplificato o articolato in crescendo nello svolgersi di una stessa didascalia, la messa a fuoco de “the big idea” come dicono gli americani, l’uso di domande essenziali, l’accompagnamento dello sguardo a supporto di uno sviluppo critico. Giustificare l’assenza di didascalie, piuttosto. Ma a partire dal confronto consapevole di un settore che, in paesi come gli Stati Uniti ad esempio, ha persino un concorso annuale organizzato dalla American Museum Association per premiarne le più meritevoli.
La verità è che noi dei musei ci fidiamo allo stesso modo in cui, alle elementari, ci fidavamo degli adulti.
Displacements, Padiglione Messico alla 17ima Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, Venezia. Foto: Venice Documentation Project
MEDIAZIONE, L’ETERNA CENERENTOLA
Il tema delle didascalie è un tema ampio e indagato, dicevamo, che ha al suo attivo decenni di studi ed esperti preparati (per citarne anche solo uno famoso: James Bradburne, il nuovo direttore della Pinacoteca di Brera); un ambito che rivendica una propria autonomia ma per il quale sembrano esserci pochissimi professionisti in Italia. Fosse davvero il contrario non si giustificherebbe l’adozione di pochissime soluzioni, praticamente sempre le stesse, che vanno dal rigore minimalista del white cube alla spiegazione vecchia maniera che fa copia e incolla dei contenuti di un catalogo, all’uso di certe imbonite frasi ad effetto e citazioni (ma scritte in grande). Come sempre, qualche esperienza interessante è stata fatta e come sempre esistono professionisti competenti ma il quadro generale registra un livello medio basso che esprime chiaramente la misura di un mondo tuttavia ripiegato in se stesso.
Perché poi, spesso, accade anche ci siano mostre bellissime, imperdibili. All’interno delle quali è possibile leggere l’alta competenza di una curatela o di un artista, ma se ci riferiamo a discipline sovrapposte eppure distinte, allora anche l’eccellenza della mediazione dovrà essere, parimenti, un tema nutrito dei risultati più alti della ricerca contemporanea.
UN CORSO E UN’INCHIESTA
Tutto questo, certamente, non significa che i modelli citati, persino muti, non possano essere validi in determinati contesti espositivi; quello che stupisce è che non se ne sperimentino mai altri. Quello che stupisce è l’arroganza di chi pretende che l’arte parli a tutti da sola e senza appigli, senza riferimenti. O con parole che sarebbero faticose persino a leggerle seduti comodi sul divano di casa: perché la lettura verticale è fra le ragioni della fatica museale ma anche questo aspetto, chiaramente, è un tabù. Quello che stupisce quindi, è che le mostre, le nostre mostre, siano rivolte in sostanza solo a chi può capirle. E che Alberto Sordi e sua moglie possano mettervi piede per uscirne così come sono entrati, tuttalpiù senza accorgersi delle risate dall’altra parte dello schermo. Ne riparleremo da qui al 4 maggio altre volte; dopodiché a Milano inizierà un corso dedicato alle didascalie, che è anche il pretesto per un’indagine lanciata in questi giorni a un centinaio di musei italiani sulle loro scelte comunicative, con l’intento di sfrondare una porta che meriterebbe davvero più spazio anche solo nelle nostre università.
Maria Chiara Ciaccheri
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