
Grafica, accessibilità e ascolto: la responsabilità del design visivo
Questo articolo esplora proprio questa idea: il graphic design come pratica di ascolto, traduzione e adattamento, capace di rendere le cose più chiare e adatte a chi le usa.
“Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.”
Questa frase, così semplice e popolare, racchiude un’idea potente: la bellezza è soggettiva. E da qui nasce una delle grandi ambiguità che circondano il graphic design, soprattutto quando viene ridotto a mero esercizio estetico.
Il graphic design è, primariamente, uno strumento funzionale che facilita la comprensione, l’orientamento, l’accesso all’informazione. Questo non toglie valore alla sperimentazione (quella che mi piace chiamare “grafica per grafici”) né alla sua componente più espressiva e artistica. Ma è un altro campo. Oggi vogliamo parlare di grafica utile, quella che ci aiuta quando siamo immersi in un luogo nuovo e, senza bisogno di parole, ci mostra con chiarezza dove andare, cosa fare e con chi ci stiamo relazionando.

Fondazione Querini Stampalia
Il design come pratica di ascolto
Essere graphic designer oggi significa ascoltare, tradurre, adattare, facilitare.
L’ascolto è il primo passo di ogni progetto.
Che sia un ascolto letterale, come la voce di un cliente, di una comunità, di uno specifico pubblico, o più intuitivo, rimane comunque un momento in cui “il mondo esterno” si manifesta, esprime bisogni e chiede senso.
Il designer ha il privilegio e la responsabilità di fare da mediatore tra necessità e soluzioni, trasformando intuizioni grezze in forme potenzialmente universali.
Qui entra in gioco la traduzione: un atto delicato, a metà tra ragione e sensibilità. Tradurre un contenuto in forma visiva richiede equilibrio tra conoscenza collettiva (linguaggi e simboli condivisi, semiotica e iconografia) e intuizione personale. Vedo il verde, penso alla natura. Ma forse, per raccontare la natura oggi, devo attingere a immagini nuove, contaminate da altri mondi. Perché il designer osserva tutto, continuamente, e spesso le risposte migliori arrivano da altrove.
Una volta trovata la forma giusta, serve capire se può essere adattata, cioè funzionare in contesti diversi. Un’identità visiva efficace non vive solo sul foglio bianco: deve adattarsi ai canali, ai media, agli spazi già esistenti (dal feed di Instagram alla parete di uno stand, dal sito web alla shopper di carta). Un buon design non impone la propria presenza, ma dialoga con ciò che c’è. Questo non significa che non si possa innovare da zero: oggi più che mai c’è spazio per ripensare tutto, abbattendo gerarchie visive obsolete, ridefinendo formati e modalità. E qui entra in gioco la facilitazione.
Facilitare significa ripensare il sistema, ridisegnare in base a bisogni reali, inclusivi, attuali e a volte significa togliere, semplificare, fare spazio.
Perché quando iniziamo a considerare davvero le necessità di più persone, capiamo che il design dev’essere un lavoro a livelli differenziati.
E l’accessibilità non è solo una questione tecnica: è un atto politico, sociale, culturale.
Facilitare significa rendere indipendenti.
Solo quando le persone sono libere di comprendere, scegliere, muoversi e partecipare, nascono nuove idee, nuove azioni, nuove possibilità.
È così che possiamo iniziare a progettare spazi, visivi e non, che non escludano, spazi dove ognuno può sentirsi parte e non spettatore.
Accessibilità = opportunità

Fonte sconosciuta
“L’accessibilità riguarda la rimozione delle barriere (cognitive, culturali, economiche, sensoriali, motorie, alla rappresentazione, etc.) allo scopo di facilitare la partecipazione di quante più persone possibili.” — Maria Chiara Ciaccheri
Progettare accessibilmente significa iniziare con il piede giusto.
Significa ancorare il pensiero all’ascolto, fin dalle prime fasi, tenendo conto dei bisogni più diversi e spesso invisibili.
Se ci fermassimo un attimo a riflettere sulle barriere che colpiscono chi vive con un alto livello di mismatch – ovvero un disallineamento tra le abilità della persona e quelle richieste per svolgere un’azione – ci accorgeremmo che nessuno ne è davvero escluso.
Che sia una persona con una disabilità permanente (senza un braccio), con una disabilità temporanea (braccio ingessato) o una disabilità situazionale (avere un bambino in braccio) ci ritroveremo ad avere la stessa necessità.

Inclusive, A Microsoft Design Toolkit
Ecco perché progettare per l’accessibilità non è solo un gesto etico, ma una scelta intelligente: il bisogno di uno può diventare il vantaggio per molti e un buon progetto è quello che semplifica la vita a tuttə.
Nel graphic design, gli esempi sono concreti e quotidiani: il giusto contrasto tra il testo e lo sfondo, o la scelta di un carattere tipografico per un libro di 300 pagine. Sono dettagli? Forse. Ma fanno la differenza tra leggere con facilità e abbandonare un contenuto a metà.
E chiunque può beneficiare di queste scelte.
Progettare accessibile: da dove partire
Quando facciamo fatica a immaginare tutte le diversità da considerare, o non abbiamo modo di coinvolgere direttamente le persone nei processi di progettazione, possiamo comunque fare scelte consapevoli. Esistono strumenti pratici e linee guida che ci aiutano a progettare con più attenzione, evitando improvvisazioni e mantenendo alta la qualità del lavoro visivo.
Ecco alcune risorse da cui partire:
- Cards for Humanity: uno strumento online che propone personas con esigenze diverse (abilità, età, genere, contesto). Utile per simulare scenari d’uso e individuare barriere progettuali.
Linee guida di riferimento
- Per il digitale: le WCAG (Web Content Accessibility Guidelines) sono lo standard internazionale per l’accessibilità web.
- Per la grafica fisica e ambientale: documenti come quelli del Canadian Museum for Human Rights offrono spunti preziosi per spazi espositivi e materiali stampati.
Strumenti di verifica rapida
- Contrast Checker: verifica la leggibilità del testo rispetto allo sfondo.
- Tipometria: calcola il rapporto ottimale tra corpo del testo e interlinea.
All’inizio può sembrare che queste regole limitino la creatività. In realtà, col tempo, diventano una cassetta degli attrezzi preziosa: permettono di innovare con chiarezza d’intento e di costruire progetti solidi, leggibili e adattabili, senza rinunciare all’identità visiva.
*ART IS IN THE PROCESS
Un esempio di sistema visivo pensato per essere chiaro, coerente e versatile è il rebranding di We Exhibit, realizzato nel 2023.
L’identità è stata riprogettata per raccontare con più precisione l’evoluzione di We Exhibit e i suoi valori: apertura, collaborazione, trasparenza. Il nuovo logo conserva la sigla “We Ex” all’interno di una cornice aperta, che richiama tanto un quadro quanto la pianta di uno spazio espositivo.
Le scelte visive, dai colori alla tipografia, sono studiate per garantire leggibilità, equilibrio e riconoscibilità in diversi contesti. Il sistema si adatta con naturalezza a nuove applicazioni, mantenendo coerenza e identità, proprio come nel caso del sotto-branding – ossia un’immagine coordinata che deriva da una brand identity primaria – dedicato ai corsi di formazione (vai al corso "Progettare per le persone: allestimenti accessibili."
Un progetto che dimostra come l’accessibilità possa diventare principio guida dell’identità, senza sacrificare personalità o riconoscibilità.

Perché, alla fine, il graphic design non è solo ciò che si vede. È ciò che permette di vedere, di capire, di orientarsi, di sentirsi parte.
In un mondo sempre più complesso, progettare con cura e responsabilità significa costruire ponti tra le persone e abbattere le distanze, facilitando incontri.
Questa è la sfida che oggi chiama chi fa design.
Francesca Martini - Graphic Designer